In nome di un sogno

In nome di un sogno cominciai.
In un tempo infinito, libero com’è la giovinezza cercai il bello e il buono.
Dapprima in me, poi fuori di me.
L’incertezza mi accompagnò, mista a una caparbia voglia di scoprire il nuovo.
Fuori da ogni schema, come vivere in un sogno, mi accostai all’ARTE.
Troppo difficile all’inizio, fuori dalle regole comuni.
Eppure affascinante.
Il fascino di un ritratto o di un paesaggio, la luminosità dei colori mi spinse più in là, in questa ricerca.
In nome di un sogno ascoltavo dentro me il fuoco di qualcosa in divenire.
Conquistai uno spazio, poi un tempo per me.
Erano tante le ore di studio, ma ero felice alla conclusione di un’opera.
Una strada sconosciuta, nuova, una strada bella.
Ci sono tanti artisti al mondo, e io volevo farne parte.
La libertà che ne conseguiva era tanta.
Non più studi di letteratura, non più tentativi di disegno tecnico bene avviati.
La storia di opere millenarie mi affascinava.
Così come cercare il buono dentro di me.
Oggi ho tempo a disposizione per raccontare questa storia.
Tanti rimangono affascinati da forme diverse di quello che comunemente chiamiamo Arte.
Nella mia storia c’ è la ricerca del bello ma anche dell’antico.
Non solo nelle arti figurative, ma anche in quelle plastiche.
Molti caratterizzano questa ricerca come una fuga dalla realtà, un divenire fine a se stesso.
Quando ho cominciato, non pensavo a questo, che sarebbe stata una ricerca senza fine.
Volevo solo soddisfare un mio bisogno, quello dell’espressione.

Così come non pensavo che sarebbe stato un lavoro.
Una nicchia di lavoro per pochi eletti, ma per tanti aspiranti.
Tutti, in modi vari, sono alla ricerca del bello:
lo cercano nella propria vita, nelle vacanze, nei figli.
Io lo cerco nei quadri, nelle persone attorno a me, nella mia quotidianità.
Quel senso di incertezza, prima di mettermi all’opera mi pervade, perché non so dove andrò tranne che a
grandi linee.
Il progetto di un’opera è la parte più difficile, parte da un’idea, un sogno, una volontà o solo da un applicare
sè stessi ad un qualcosa.
La tecnica di realizzazione è importante, quasi quanto la tua idea iniziale.
La difficoltà è nel credere o non credere di saper fare. Ogni volta è una sfida nuova, ogni mattina un giorno
diverso.

L’artista è diverso dagli altri in questo, cerca dentro sè stesso per poter poi donare un pezzo di questa
creatività agli altri.
In fondo ogni lavoro creativo è così.
Mi ritrovo tutti i giorni a guardare ragazzi che frequentano l’università e mi chiedo se la mia scelta ha la
stessa valenza.
Orari scadenzati, lezioni, esami.
Li guardo e mi sento un po’ come loro, eterna adolescente che aspira a qualcosa.
I loro sogni sono più concreti?
Sono più appetibili, reali?
Me lo chiedo mentre li guardo mangiando la loro pizza fra una lezione ed un’altra, e mi vengono in mente
ragazzi diversi, quelli morti a Lampedusa.
Anche loro e le loro famiglie avevano un sogno, quello della “terra promessa”, di un futuro migliore.
Invece tanti hanno trovato la morte, giovani, incoscienti, ignari dei pericoli.
È vero, non sapevano nuotare, armati solo di una coperta e in qualche caso con qualche bambino piccolo.
Davanti a questo mi guardo e mi dico quanto sono fortunata. Eppure tanto spesso non ce ne accorgiamo,
presi dalla frenesia o dagli impegni.
La pubblicità ci urla di comprare qualsiasi cosa, una macchina, un tapis roulant, una nuova bambola per
nostro figlio.

Siamo in una macchina in crisi, dove, in nome di un sogno, tanti ricercano una felicità decantata, millantata.
Posso prendere, posso avere, posso essere? posso essere come te?

Come me, che vivo di osservazioni, disincanti, a volte solitudine ma ho tutto quello che “la società” mi
propina perché ne ho bisogno?
Io che mi permetto il lusso di stare ferma, di scrivere, dipingere e quant’altro, sostenuta, fine osservatrice di
un mondo che non è più quello che sembra?
Loro vogliono il sogno, non solo in Italia ma ovunque esso si trovi ma non nei loro paesi devastati dalla
povertà o dalla guerra.
Nella mia ignoranza osservo le cose belle senza sapere quello che c’è dietro.
Eseguo quadri sulla Libia quando non so niente di quel paese.
La guerra, le armi in mano ai bambini, quando il problema di mia nipote è se studiare musica o no, di finire i
compiti per il saggio.
Questa sorta di ovatta a lungo andare stufa.
È vero, ci sono i telegiornali, che ci tampinano di notizie, ci dicono che c’è la crisi mondiale.
Però non so se avrei davvero il coraggio di lasciare tutto e andare in Africa, a fare la volontaria.
Più probabile che mi metterò a disegnare gioielli, che peraltro reputo una cosa difficilissima.
Eppure il lusso è quello che cerchiamo ancora, non so perché.
Me lo chiedo e non so darmi una risposta, forse è un buon modo di guadagnare, di sentirsi al di sopra della
crisi, e nel migliore dei casi, di aiutare gli altri attraverso delle fondazioni.
Loro, quelli del sogno.
Gli altri, quelli lontani, quelli che noi vogliamo rimpatriare perché siamo saturi.
Quelli contro cui le mamme e i papà italiani combattono per avere un posto all’asilo per i figli.
Senza renderci conto che è un semplice ricambio generazionale: noi siamo in crisi, loro invadono il “nostro
territorio” e cercano abiti alla moda a basso costo.
Si sentono italiani, ci osservano, difendono il loro clan. Sono tanti, troppi.
Allora mi chiedo: e se il sogno fossero loro?
Uomini e donne ancora capaci di difendere la famiglia, di lavorare tutto il giorno senza fare differenza su
impieghi più o meno umili, che molto spesso non sono consapevoli delle proprie potenzialità perché non se
lo chiedono, ma mandano i figli a scuola e sono fieri di quello che costruiscono.

Se fossero loro l’esempio da seguire, in un mondo ormai impazzito, intellettualizzato, narcisista e vuoto?
A volte mi vergogno di essere quella che sono, pigra, borghese, chiusa.
In un mondo relativo, non obiettivo, dove poco mi colpisce, da poche cose sono veramente scossa, e a volte
la povertà di pensiero mi stupisce.
Se fossero loro il sogno, se si potesse tornare indietro io ci starei.
Ancora m’interrogo su quale sarebbe la strada più veloce per avere successo e non mi rendo conto invece
di quanto ci stiamo tutti inaridendo.
L’Italia, il bel paese che non c’è più. Forse dovrebbe imparare da questi disperati che invece portano
qualcosa di buono.
Il mio scopo adesso è trovare una nicchia di lavoro.
Non è facile per nessuno, in questo momento, e mi rigiro nei miei pensieri.
Cerco di fare altro, chiedendomi se la mia vita ha assunto uno stile, un profilo di produttività.
Fare dell’altro si concretizza in leggere, cercare nuove cose su Google, distrarmi.
Do per scontato che sono brava nel riprodurre immagini e non ci dedico tutto il mio tempo.
A volte mi sento “scoperta”, come su una nuvola, senza obiettivi, senza amore.
Non credo più nell’amore, quello vero, passionale, che ti fa dimenticare tutto.
Rimango con i piedi per terra, declino ogni possibilità di inizio di qualcosa.
Eppure soffro la solitudine, come tutti.
Una volta una persona mi ha chiesto come da persone libere si diventa schiavi.
Allora non ho saputo rispondere ma forse ora lo so.
Sono le abitudini, il non vedere come magico quello che prima lo era.
È l’inerzia, quella che spegne la fame di ogni cosa.
Fame di novità, di bello, ma anche di problemi mai risolti che a volte si ripropongono alla mente.
Ogni volta una tela o un foglio bianco sono un’incognita.
Non sai cosa ti aspetta dopo, e ti rendi conto che vivi come nell’attesa di una sorpresa, di un qualcosa che
possa cambiare, come quei ragazzi e uomini e donne di Lampedusa.
Allora lo crei quel qualcosa.
Non sai se sarà bello o brutto, se piacerà a qualcuno, o ti stai solo divertendo per il piacere di farlo.
Butti giù, a volte senza pensare, altre volte riflettendo bene.
L’illuminazione, quella che ti viene all’improvviso è in realtà la molla che spezza il quotidiano.

Tanti anni di lavoro inseguendo un’illusione.
Questa è quella che ti porta avanti, nonostante le poche occasioni di gioire insieme ad altri, tutti presi dalla
loro vita, come io dovrei essere dalla mia.
Invece spesso tergiverso, mi crogiolo, recrimino una pace che apparentemente non c’è, cerco il pelo
nell’uovo.
Qual è lo scopo di tutto questo, mi chiedo?
È trovare risposte a domande che salgono dall’interno.
Una vita interiore fatta di sprazzi di luce e di ombra, che a volte mi riportano in superficie.
Ho pochi amici, molti sono sposati con figli, altri lavorano duramente.
Io sono in uno stato di limbo, privilegiato, in attesa che mi venga voglia di tracciare idee.
Questo si accompagna a volte a un senso di angoscia, a volte di grande serenità.
Potrei essere più colta, più mondana, più comunicativa.
Invece spesso mi chiudo nel silenzio, aspettando che la pioggia passi, mandando email.
Cosa fai di lavoro oltre a questo? Cosa fai? Mi chiedono le persone con cui sono in contatto.
Niente, sto in bilico tra un lavoro da cercare e uno da svolgere.
Potrei darmi alla ricerca, libri, quadri, esposizioni.
Il mercato dell’arte è ricchissimo, ma a volte sto solo in silenzio.
I successi quasi mi danno fastidio, come se non fossi io quella che produce, che fa.
Sono alla ricerca di un’altra me, più interiore, qualcosa che neppure io conosco, qualcuno che devo ancora
incontrare, forse in un fondo buio mai esplorato.
È sconvolgente come oramai tutti mi lasciano stare. Mi conoscono, sanno che ho scelto questa vita e a volte
mi sembra che il mio prossimo sappia esattamente come vanno le cose: doveri, scadenze, vita sociale.
Invece magari non sanno niente, si svegliano con le mie stesse inquietudini, cercano valvole di sfogo: il
circolo, la palestra, gli amici.
Lo stesso senso di incertezza, cancellato dal senso del dovere.
Ogni persona in fondo si aggrappa a qualcosa.
Mi accosto alla tela. dipingo un mercato, ma le figure sono confuse, indecifrabili.
Forse non so più dipingere come prima, penso.
Proverò su una tela più grande, la pittura non mente, è questione di esercizio.
Guardo il mio mercato: sembra più un teatro, spero di riuscire a fare meglio il prossimo quadro.

Ho confuso il rosso con il rosa, che stona insieme al bianco e al giallo. Potrebbe essere un teatro di bambini.
Sono tentata di pensare che sono infantile, ma è la mano che mi manca.
Tutto questo cercare lavoro, la recitazione, lo scrivere mi hanno distolto da quello che più amavo fare:
rappresentare la realtà e la fantasia, con giochi di colori.
Ora questo mi sembra stridente con il mio stato d’animo, fatto alla rinfusa, di corsa.
Ho la sensazione che dovrei essere in un altro posto, a fare altro, non chiusa in casa a riprovare e riprovare.
Dovrei essere fuori, uscire con qualcuno, ma piove.
Due amiche al bar sotto casa si sono ritrovate, e mi viene da pensare che io un’amica vera con cui ridere
non ce l’ho e neanche un fidanzato.
Ho un amico con cui esco a volte il sabato ma oggi non ne ha voglia.
Pazienza.
Lo sento come un dovere, riprovare.
Questa volta userò colori diversi, qualcosa che mi soddisfi che dia l’idea della confusione e della
compostezza del mercato, qualcosa che mi faccia sentire la vita che c’è dentro.
La mia scrivania è piena di carte, fogli, disegni, cartelline.
Le ho ammonticchiate in un angolo, paurosa.
I libri sono sempre gli stessi, cataloghi, storia dell’arte, qualche libro di letteratura. Il di più è in cantina in
scatoloni bene ordinati.
Pomeriggi passati a leggere, di tutto, non solo di arte, e serate ad ascoltare musica, come a cercare
l’ispirazione.
Ma trovo solo macerie, nel mio cuore gonfio di un dolore che non mi si addice, un triste lamento esterno
che cerca vibrazioni più profonde, senza arrivare al significato.
La musica fa questo effetto, ascoltata da soli è ridondante, cozza con il silenzio dentro.
Quando ho cominciato volevo dare un taglio col passato: ho tenuto il cavalletto in bella vista come un
monito e ho cominciato a lavorare nello studio.
Poi mille pensieri, e la vita che segue il suo corso: ti metti a pensare di fare altro, di poterti mettere in gioco
in altro modo.
E poi c’è l’attesa, quella strana sensazione di un qualcosa che deve accadere.
Come se la tua vita dovesse cambiare all’improvviso, non ti basta una casa confortevole, una famiglia, degli
amici: vuoi altro.
Forse l’amore.
Forse sentirti semplicemente desiderata, ammirata non solo per il tuo lavoro.

Oppure la grande occasione, quella che non arriverà mai, a conclamarti grande artista di successo. Chissà.
La responsabilità di una vita da sola, la casa da mandare avanti, un padre che parla a monosillabi quando ti
sente o parte per la tangente con tutti i suoi acciacchi dell’età.
Eppure mi sento cristallizzata, chiusa in regole non scritte, autoimposte da ferrea disciplina.
Poche le uscite, nella strada solita per comprare qualche sigaretta e la spesa, pochi vizi, poche emozioni.
In cerca di qualcosa che turbi la mia placida serenità passo mattinate e pomeriggi tranquilli in solitudine e
mi chiedo se è quello che volevo, se era così la vita che immaginavo a vent’anni, se anch’io avevo un sogno
oppure no.
Penso di nuovo a Lampedusa, ora alla Sardegna, ai paesi come la Libia.
Loro tempo per riflettere non ne hanno, devono pensare all’immediato, a quello che gli è capitato. bevo il
caffè e penso che sono fortunata, di nuovo, ma anche al significato della parola vivere.
Forse lo capisci quando ti muore una persona cara, o semplicemente quando cominci ad apprezzare quello
che hai e che sei.
Mia madre mi dice che non so quanto valgo.
Non so se darle ragione, se lo dice perché è mia madre, ma non ho fatto figli e ne avrei voluti, tutta presa
da una famiglia allargata, da quei ruoli che impari da bambina, da questa maschera che mi sono messa da
tanto tempo per non guardarmi dentro.
Il disegno come comunicazione, come espressione, anche con i familiari, quelli a cui a volte non sai cosa
dire, a cui difficilmente comunichi la tua intimità.
I miei successi da adolescente, opportunamente tenuti nascosti, il primo bacio, le sensazioni di spensierate
vacanze, tutto tenuto dentro, serbato per un’occasione migliore di vivere un presente più appagante o più
sereno.
Mi accorgo di aver costruito una trappola e capisco il senso di quella frase: da libera sei diventata schiava.
Schiavo è chi non crede in qualcosa, chi non scambia amore con odio.
Schiavo è chi si chiude in sè stesso sperando che qualcuno lo stani.
Oppure da’ per scontato quello che fa, quello che è diventato, a volte più conformista, più pauroso del
mondo.
Un mondo fragile, fatto di apparenze, basato sull’io.
Un mondo che non dà certezze ma a cui devi sempre qualcosa.
Essere accettati, amati, non rifiutare il prossimo sono dei buoni propositi per accogliere questa esistenza
che a volte si fa vuota.
Sono passata alla tela grande, per dipingere il mio mercato, i colori predominanti sono il bianco e l’avana. È
il mercato del Qatar, un posto dove non sono mai stata ma che immagino pieno di colori e spezie
profumate.

Oggi è il giorno del mio compleanno e mi sento più felice.
Si avvicina quell’aria secca e frizzante del natale, alcuni negozi già mostrano invitanti gli addobbi natalizi.
Mentre passeggio per il centro durante una rigida mattinata, non penso al mio quadro.
Guardo le vetrine, e mi ricordo di quando non mi fermavo neanche, convinta che non ci fosse niente per
me.
La sensazione è simile, ma ora mi sembrano più invitanti, ammiccano.
Non c’è nessun profumo particolare.
Incrocio un amico, ci salutiamo con un sorriso senza soffermarci.
È un lusso passeggiare all’ora di pranzo in via Frattina, penso, e sono strade che conosco bene, quelle del
centro.
Ma per quanto possano essere invitanti con la loro confusione, non mi danno nessuna sensazione
particolare.
Vociare di ragazzi che vanno a teatro.
La maschera li accoglie sorridente con un “per di qua” e mi sembra contenta di avere finalmente un folto
pubblico.
È pieno di pizzerie proibite, negozi di chincaglierie e accessori, ristoranti e bar.
Il mio mercato invece è pulito, almeno secondo me, ci sono pochi passanti e molti oggetti artigianali, forse
di bambù, o legno lavorato.
I suoi abitanti portano delle tuniche, bianche o del colore del deserto, e ci sono beni di prima necessità:
scope, sedie, tappeti.
In alcuni punti saltano fuori degli archi, ingressi di abitazioni dove tutto si fa scuro, più riservato.
Penso a come è diversa la nostra città così rumorosa, sempre uguale. vecchi fasti di una ricchezza che non
c’è più contro atmosfere ancora limpide, genuine del deserto. penso che mi piacerebbe andarci, un giorno,
che un quadro non basta a respirare quella vita. Quelli che per noi sono barboni lì sono anziani rispettati.
Ogni cosa al suo posto, secondo un ordine ben preciso anche nelle generazioni.
Un filare di scope, difficile da riprodurre, arreda una parete.
mi fumo una sigaretta e guardo quello che ho fatto.
Un altro pezzo di cielo è entrato in casa mia.

Capitolo 2
Da giovane artista sono diventata una donna. E’talmente tanto tempo che faccio questo lavoro che non mi
sono accorta che nel frattempo sono cresciuta.
La prima volta che ho messo piede in uno studio d’artista avevo vent’anni circa e l’università non andava
bene.
Ero giovane e mi trovavo davanti una donna d’esperienza.
Così imparai i primi rudimenti, fino a diventare autonoma.
Oggi sono “grande” e in grado di gestirmi da sola.
Per la prima volta vedo i miei genitori per quello che sono.
Da adulta.
Parlando con mia madre la rivedo nei suoi occhi come quando era giovane, e mi intenerisco.
Passo molto tempo con lei, forse ancora con la paura di perderla.
Sono io il mio futuro, mi dico.
Ma poi cerco lei, con l’ansia di chi non sa cosa succederà domani, di poter perdere questo legame.
Oggi sono riuscita a parlarle del mio senso d’inferiorità nei suoi confronti, di quanto mi senta piccola
davanti a tutto ciò che ha costruito.
Invece di prenderla ad esempio, mi lascio incantare dalle sue parole, dal suo fascino.
Parliamo di tutto e per me è un arricchimento.
È triste doversene andare. Sono ancora la sua bambina e questo mi fa sentire al sicuro da questa adultità
che ormai è la mia età.
Se dovessi considerare le cose solo dal mio punto di vista, il tempo non passerebbe mai.
Invece non è così, e me ne accorgo dai miei capelli, dal mio stile di vita cambiato.
Alla fine sono andata al cinema con il mio amico.
Non c’è una vera relazione, c’è una conoscenza che piano piano è diventata amicizia speciale. Non ci
chiediamo niente di più di quanto non vogliamo o possiamo darci. Per ora cioè da parecchi anni, va bene
così.
Siamo solo amici, nel frattempo abbiamo avuto relazioni reciproche ma tra di noi non c’è mai stato niente,
tranne una sottile affinità, un affetto che abbiamo portato avanti.
A volte lui mi ha detto di essere innamorato di me ma non ne volevo sapere. Mi faceva strano.
Lui ha accettato lo stato delle cose.
Adesso sono io che a volte vorrei qualcosa di più.

Mi fa sentire protetta con i suoi rimproveri, il suo modo brusco di fare quando ho qualche idea per la testa.
Mi accetta per quella che sono, un po’ matta, un po’ casinista e sempre insoddisfatta. Forse mi ama
davvero.
Io l’ho trattato con superiorità e lui mi ha mandato a quel paese per diverso tempo.
È difficile sapere cosa passa per la mente di un uomo quando lo tratti male, probabilmente ti invia delle
parolacce mentalmente.
Intanto lui mi sorride.
Consapevole del fatto che prima o poi arriverò alla conclusione che lui ha ragione.
Del mio essere artista non dice niente. Hai poi fatto quel corso di doppiaggio?
Mi chiede. Quando gli rispondo che costava troppo arrivo a punto a cui voleva io arrivassi.
Mi ha viziata. Eppure non sento attrazione, non ricordo di aver desiderato avere una storia, non sento lo
slancio. probabilmente non mi accorgo che invece è amore, oppure ho un brutto rapporto con il sesso.
Fatto sta che ci frequentiamo da anni.
Forse non ho il coraggio di dirmi che è qualcosa di più.
Che sono una donna normale come le altre, in grado d’innamorarsi.
Ho paura che il mio teatrino di cartone si rompa, tutto il mio palinsesto venga giù che finisca tutto. Forse ho
paura di perdere anche lui, come tutti i miei affetti.
Con i miei fratelli, stessa solfa. Parlano di lavoro e mi sento esclusa.
Li sento grandi, importanti. Più grandi di me Eppure sono più piccoli.
Mio padre una volta mi ha detto che ho l’invidia del pene, ci sono rimasta di stucco: a parte questa
citazione freudiana arcaica, che ne sa lui di me?
Lui che è andato via di casa dicendo di tutto su mia madre.
A questo punto penso solo di essere un’adolescente un po’ cresciuta che non ha risolto il problema della
separazione dei suoi.
Mi vado a leggere Erica Jung, paura dei cinquanta, e realizzo che non erano poi tanto diverse da noi una
generazione fa.
Se non fosse per quel senso di vuoto che ogni tanto mi pervade, penserei che nella mia vita non manca
niente. mi sto innamorando, credo.
Mia madre mi dice che sono una “ragazza deliziosa”.
Non so bene cosa questo significhi per lei.
Ho ritrovato vecchi disegni fatti da me immagini di Roma antica tratte da cartoline antiche.

Li ho fatti vedere al mio amico, dice che sono carini.
A volte non mi capacito come riesco a passare da momenti bui a momenti in cui disegno bene.
Spesso è questione di esercizio ma alcune volte non ci sto con la testa: vorrei creare dei capolavori, invece
non mi rendo conto che solo con il lavoro giornaliero si ottiene qualcosa.
Oggi ho lavorato ancora sul mercato, su un’altra tela.
Una l’ho regalata ad una cameriera del bar dove vado sempre.
Non so se le piaceva, a me ha dato un senso di liberazione poter donare qualcosa e non soltanto vendere.
La maggior parte delle volte ti rispondono con un no grazie, ed è umiliante.
Regalare una tela, o un cartone, invece è gratificante, sai che la persona sarà contenta a prescindere.
Non sono una buona agente di me stessa. non mi so vendere, eppure ho un patrimonio da gestire in quadri,
ceramiche, piccole sculturine.
Mi sono chiusa tra quattro mura in posizione di difesa e non ricordo neanche il perché.
Probabilmente penso che quello che faccio non ha valore per nessuno tranne che per me stessa.
A volte le giornate scorrono vuote, con me alla ricerca di una nuova idea.
Passo il tempo in strada o a casa, rimuginando.
Poi mi rendo conto che devo solo applicarmi.
Gli inviti alle mostre mi fanno sentire più piccola di quella che sono: titoli altisonanti per cose che alla fine
sono solo dei concetti, delle belle installazioni o idee realizzate per stupire e non mi ritrovo in questo
mondo.
Mi piace ancora il figurativo, le belle forme, ma c’è stato anche per me il periodo dell’astratto.
Forme e colori in una composizione da me scelta, con temi ricorrenti, come la natività, la donna, l’amore.
Ma anche puro colore, senza un apparente significato.
La mia maledizione sono le sigarette.
Ne fumo una quantità industriale, e a volte mi chiedo come mai sto ancora bene.
Sono una valvola di sfogo, sarà perché ho cominciato in accademia, tra una lezione e l’altra, o addirittura
tra un disegno e l’altro.
L’atmosfera che si respirava era di un mondo fuori dai canoni, con leggi diverse dalla quotidianità.
C’era una certa libertà e a volte questa viene confusa con qualche altra schiavitù, come quella del fumo.
La maggior parte dei miei colleghi non erano già inseriti in qualche modo nel mondo del lavoro; a parte il
figlio di un orafo, la figlia di un commerciante, altri ragazzi che ho poi rincontrato alla scuola d’arti
ornamentali per lo più seguivano le tecniche di fusione del bronzo, la cera, la creta.

Quello che mi appassionava di più, a parte le tecniche di scultura, era il disegno e lo è tuttora.
Non mi sono mai sforzata più di tanto a fare calchi in gesso o ad utilizzare la materia, esclusi la creta e
l’acciaio.
Andavo a studio dal professore ad imparare ad usare il seghetto per i suoi bozzetti, ma preferivo eseguire i
miei in creta.
Non mi sono mai aspettata riconoscimenti particolari ma ammetto di aver lavorato meno degli altri sul
volume.
Riuscivo a seguire una certa disciplina in questo da Marcella Sala, li con gli attrezzi necessari, mi applicavo di
più.
Finito quel periodo è rimasta la ricerca e la progettazione che imparavamo con grandi disegni eseguiti su
compensato.
A questo punto doveva subentrare lo studio della struttura dell’opera, ma ammetto di non essermi mai
cimentata in grandi cose.
Mi riuscivano le forme piccole, piccoli nudi o bassorilievi.
Ora sono affamata di libri.
Sento che mi manca un altro tipo di cultura, più teorica, nonostante le lezioni di storia dell’arte.
Premesso che io un lavoro in uno studio probabilmente non lo avrò mai, a meno di non aprirne uno mio, mi
sono sistemata a casa con il mio cavalletto.
Non ricordo il passaggio dall’arte plastica alla pittura, probabilmente per motivi logistici.
Non ho mai studiato per diventare una pittrice in vita mia, a parte le lezioni fornite da Marcella.
Sono tante le mie paure, ma tutti i giorni cerco di affrontarle.
Certo avere dei punti di riferimento, dei confronti è meglio ma a volte è solo ritrovare la serenità e
l’entusiasmo nel fare le cose.
Il mondo esterno è fatto di altro, di lavoro, divertimento, studio.
A volte mi perdo per questo, perché non ho uno studio tutto mio o perché mi sembra troppo difficile
portare a termine una scultura.
Gli insegnanti in queste discipline sono molto importanti.
A forza di astrarmi dalla realtà, non mi sono resa conto delle maschere che ho messo:
prima donna indipendente, contro le regole, poi artista poi donna aggressiva.
L’educazione che ho ricevuto non la ritenevo attuale.
Mi sembrava di essere trattata come una ragazza di altri tempi, e cosi ho cominciato a ribellarmi.
Prima con l’università, poi iscrivendomi all’accademia.

Volevo qualcosa di mio, non seguire le solite strade.
Poi mi sono accorta che non c’era niente di rivoluzionario nel mio comportamento, solo tanto amore
Ricevuto.
Ancora oggi penso che se avessi scelto un’altra direzione forse sarei più inserita nella società.
Ma in realtà ognuno è libero di fare come vuole, non ci sono regole scritte o predeterminate.
Quello che vivevo all’interno della mia famiglia l’ho trasferito nella mia vita come seguendo una scia.
L’amore per il bello, per la cultura e l’estetica sono sempre state prerogative di mia madre, che mi ha
trasmesso.
A volte mi sento persa dietro un mondo di sogni.
Questo mancato senso di realizzazione sopraggiunge quando non riesco a fare qualcosa o mi confronto con
gli altri.
Mi sembrano superiori, arrivati, realizzati, e non mi rendo conto dell’enorme libertà di cui godo, potendo
gestire le mie giornate.
Non mi rendo conto di quello che mi è stato dato, in termini di attenzione, denaro, fiducia.
A volte mi sento sola e basta e cerco qualcosa di alternativo da fare.
Ma non trovando niente di specifico, mi godo la mia giornata.
Questo dolce far niente scaturisce poi in un’idea, da mettere per iscritto o tra i miei quadri.
È quella serenità che hanno voluto darmi i miei genitori lasciandomi libera.
Ripenso ai miei anni passati nella facoltà di architettura, anni in cui avevo voglia di imparare ma anche
timore di confrontarmi con una materia nuova.
Oggi parlando con la mia amica Cristina mi suggeriva di farmi avanti, di non mollare.
Di capire quali sono le mie competenze ad oggi e propormi con una certa sfrontatezza.
Poi mi ha suggerito la politica dei piccoli passi, in contrasto con quello che mi aveva detto prima.
Come risultato sono andata a comprare un libro sull’arte contemporanea.
È incredibile come gli psicologi a volte hanno l’effetto contrario.
Ho una madre che continua a dirmi che devo credere in me stessa e curare il mio aspetto fisico, fare vita
sociale.
Sono in una sorta di abulia, dice, dalla quale solo io posso tirarmi fuori.
Non che fare quadri non mi piaccia, anzi.
Ma è quel rifiuto del resto del mondo che mi spinge a chiudermi in me stessa.

E per trovare la felicità e un compagno questo è deleterio.
Continuo a uscire con il mio amico, che mi fa sentire al sicuro: niente impegni, niente doveri.
Ho l’impressione che a 45 anni i giochi siano già chiusi.
Troppo impegnata a pensare ai miei problemi prima, non mi sento di mettermi in gioco come donna;
mi pare una forzatura, che non ci sia niente di naturale nel voler perdere chili per piacere a qualcuno,
invece pare che sia proprio così che funziona.
Io poi sono una buona forchetta, e sto bene nel mio corpo.
Invece ci sono dei must da seguire.
Oggi la donna deve essere magra, sinuosa e in forma come una modella.
Il resto viene dopo.
Sembra incredibile ma è così, anni di femminismo e ci ritroviamo con un’altra schiavitù, quella dell’essere
magre e in forma.
Tutto ciò non dovrebbe cozzare contro i miei canoni estetici, anzi.
Ma mi risulta difficile accettare che si venga prese in considerazione solo per l’aspetto fisico.
È una delle mie aree di miglioramento.
Quando ero più giovane non sentivo questo problema, adesso comincia a diventare importante.
Mentre sto chiusa nel mio mondo, le cose vanno avanti, o indietro che dir si voglia: in fondo, un po’ di
fitness non fa male a nessuno, mi dico, ma mi rendo conto che l’estetica è un vero business al giorno d’oggi
e che siamo tutti assoggettati a queste regole, non si sfugge.

Monica Pecchinotti